La terza sconfitta consecutiva del “correismo” in Ecuador conferma i cambiamenti politici in corso in America Latina. Con uno schema che si ripete, il candidato del partito di Rafael Correa, uno dei protagonisti della “marea rossa” in Sudamerica degli anni 2000, al secondo turno non riesce a superare il 50%. Correa è un caso particolare rispetto ad altri presidenti dell’epoca. In carica dal 2007 al 2017, non si è perpetuato nel potere, pur avendo tentato di farlo, e la sua uscita di scena è stata traumatica: dopo una condanna per corruzione si è rifugiato in Belgio, dove tuttora risiede. Malgrado questi fatti, non si è mai ritirato dalla politica del suo Paese, determinando pesantemente le scelte e i programmi dei candidati progressisti sconfitti negli ultimi tre turni elettorali.
La sua figura non è divisiva soltanto in Ecuador ma anche nel variegato campo della sinistra latinoamericana, all’interno della quale si iscrive anche l’indigenismo, che in Ecuador è rappresentato da un partito. Il correismo è stato una versione ecuadoriana del chavismo venezuelano o dell’evismo (per Evo Morales) boliviano. Una sinistra uscita dalle macerie dei colpi di Stato e dei governi neoliberisti, efficace nel momento di redistribuire, ma incapace di far crescere l’economia. Si è impegnato nei piani di welfare e per i diritti individuali, sociali e ambientali, ma con piglio dirigista, consultandosi poco con i movimenti sociali che in Ecuador sono particolarmente vivaci e hanno una lunga storia di lotta, come quelli indigenisti. Per questo il correismo si è molto allontanato sia dagli indigeni sia dall’ala socialdemocratica della sinistra. Non ha saputo aprirsi alla società, a differenza di Gabriel Boric in Cile e Gustavo Petro in Colombia, proponendo anche idee per la sicurezza che a molti hanno ricordato le svolte autoritarie già vissute in Venezuela.
Come in Argentina con la vittoria di Milei sui peronisti, in Ecuador Daniel Noboa non ha vinto per meriti propri, ma perché aveva come avversaria la candidata scelta da Correa, che dava poche garanzie di indipendenza. La sconfitta di Luisa González conferma ancora una volta che in America Latina convivono due sinistre: quella legata agli anni 2000 o è diventata regime o non riesce più a vincere; l’altra, emersa in tempi più recenti, è fortemente influenzata dall’ambientalismo, dalle questioni di genere e dalle lotte indigene, e vince.
L’eccezione, in questo quadro, è il Brasile di Lula: un leader della stagione precedente che è riuscito a fermare la deriva autoritaria, e ora sappiamo criminale, di Jair Bolsonaro. Ma anche in Brasile, se non si rinnoverà fortemente il campo progressista, tutto potrebbe cambiare velocemente.
Il caso dell’Ecuador ci racconta anche il dramma personale di un politico che non ha saputo ritirarsi dopo un’esperienza per tanti versi positiva. Correa, e in modi diversi Morales in Bolivia, Maduro in Venezuela e Ortega in Nicaragua, sono ormai parte del problema nel quale si dibatte la democrazia latinoamericana. La scomparsa di queste figure dalla scena politica sarebbe solo un bene, per le sinistre più che per le destre.
