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“It’s the economy, stupid!” fu lo slogan vincente che Bill Clinton adottò contro Bush senior quando lo sbaragliò alle elezioni presidenziali del 1992: ed è vero che qualsiasi problema diventa secondario quando i conti di un Paese non tornano. È questa la chiave di lettura corretta per spiegare il “fenomeno Milei” in Argentina. I temi che hanno trovato più spazio sulla stampa internazionale – come i diritti umani, le questioni di genere e la difesa della memoria storica, valori che sicuramente non fanno parte della cultura di Milei – nel dibattito interno all’Argentina hanno avuto una rilevanza marginale. Le questioni importanti sono state altre. In primo luogo, la necessità di una soluzione per il problema dell’inflazione, che quest’anno sta toccando il 142% e che negli ultimi tre anni si è mangiata gran parte del reddito delle famiglie. Che la ricetta sia la dollarizzazione dell’economia, come suggerito da Milei, è opinabile: ma la sua è stata l’unica proposta concreta, contrapposta al silenzio del rivale Sergio Massa, ministro dell’Economia in carica e, quindi, tra i primi responsabili del ciclo inflazionistico. L’altra questione chiave è stata la cosiddetta “lotta alla casta”, certamente non originale ma di stretta attualità in un’Argentina che arriva da vent’anni di peronismo kirchnerista. Soprattutto nell’ultimo periodo, gli scandali di corruzione e la spartizione clientelare delle poltrone delle imprese gestite dallo Stato, affidate a persone senza competenze, sono apparsi eccessivi perfino per gli standard argentini: due decenni di potere e di impunità acquisita hanno portato a eccessi ingiustificabili. La situazione risulta aggravata dall’aumento esponenziale della violenza criminale, dai semplici borseggiatori fino ai narcos, favorito da un sistema giudiziario dalle maglie troppo larghe.

La sconfitta di Massa è stata anche una vittoria delle province. Il sistema federale argentino prevede alcune tasse locali, ma le imposte fiscali più importanti, equivalenti alle nostre IVA e IRPEF, sono raccolte dallo Stato centrale, che poi le ridistribuisce sul territorio. Dal 2014 i trasferimenti alle province non amministrate dai peronisti hanno subito costanti tagli a vantaggio dei territori “fedeli”, soprattutto i comuni della periferia di Buenos Aires, storico bastione peronista. Le sovvenzioni per energia e trasporti e gli aiuti sociali sono stati assorbiti quasi tutti dalla provincia di Buenos Aires, mentre le altre venivano emarginate. E così a Córdoba, Santa Fe e Mendoza, le province più importanti dopo quella della capitale, il voto per Milei ha toccato punte del 70%.

Alla base dei populismi di nuova generazione ci sono sempre motivi profondi, che spesso vengono trascurati perché si preferisce raccontarne gli aspetti folkloristici. In America Latina poi, in società ormai spaccate, non si ammettono mai le colpe che portano alla sconfitta, a destra come a sinistra. Il quotidiano “Pagina 12” di Buenos Aires, portavoce del peronismo progressista, il mattino dopo il voto presidenziale ha pubblicato un editoriale spiegando che “il popolo ha sbagliato”. Il problema non è il governo uscente, non è la disastrata economia: è l’elettorato che sbaglia. Un classico di chi, senza mai fare autocritica, prepara la propria parte politica a nuove sconfitte. Ieri Bolsonaro in Brasile, oggi Milei in Argentina, senza dimenticare i candidati “impresentabili” arrivati fino al ballottaggio in Colombia e in Cile: le destre storiche del continente sudamericano diventano marginali di fronte all’emergere dei nuovi tribuni del popolo, in genere ultraconservatori, che riescono a fiutare il malcontento popolare e a tradurlo in proposta politica, giusta o sbagliata che sia. È una capacità che 25 anni fa ebbero i Lula, i Chávez e i Morales, spesso scivolati nel populismo di segno opposto. Oggi occorrono abilità mediatica e la capacità di scuotere le persone perché vadano a votare. Viviamo una nuova era, a cui ancora ci dobbiamo abituare, nella quale chi fa politica deve saper interpretare gli umori, le sofferenze e le aspirazioni della gente non studiando sui trattati di sociologia, ma vivendo tra le persone. E nella quale alla “predica” deve seguire un comportamento personale coerente, perché la politica di oggi è fatta da fedeltà temporanee.  

Nelle elezioni presidenziali argentine del 2023 saranno tre candidati a contendersi la massima carica politica. Soltanto due passeranno al secondo turno, che viene dato quasi per certo. Il paradosso, in un Paese che di paradossi è particolarmente ricco, è che i tre candidati sono tutti ascrivibili al campo del populismo, sia pur con sfumature e intensità diverse. Sergio Massa è il candidato peronista, sostenuto cioè dal partito fondato da Juan Domingo Perón a metà del Novecento, considerato un caposaldo del populismo a livello internazionale. Massa però non arriva dal peronismo bensì dalla destra liberale, ed è attualmente il ministro dell’Economia di uno Stato che veleggia attorno al 130% di inflazione annua e con il 44% della popolazione in condizioni di povertà. In nessun Paese al mondo un ministro corresponsabile di questa situazione potrebbe pensare di candidarsi, ma in Argentina la logica spesso viene sovvertita. Le ricette del populismo peronista-massiano prevedono un welfare clientelare di sopravvivenza, che non viene erogato dallo Stato ma da intermediari ormai diventati soggetti politici informali, finanziato stampando moneta come se non ci fosse un domani. L’inflazione ormai cronica, infatti, non è dovuta a un surriscaldamento dell’economia ma all’incessante produzione di denaro. Del resto, il cambio con il dollaro USA è controllato dallo Stato, che dichiara ufficialmente un tasso fasullo, pari alla metà di quello praticato nella realtà dal fiorente mercato del cambio illegale. Il populismo erogatore di pesos svalutati, “mangiati” dall’inflazione nel giro di un mese, è la cifra degli ultimi anni di governo del presidente Alberto Ángel Fernández, così impopolare che nemmeno si ricandida.

L’altro fronte politico, quello dell’alleanza tra liberali e radicali che nel 2015 portò al potere Maurizio Macri, candida Patricia Bullrich, rampolla di una delle famiglie più importanti del Paese e vicina, da giovane, al gruppo armato dei Montoneros. Lei sì proviene dal peronismo, ma lo ha abbandonato da almeno 15 anni. È stata ministra della Sicurezza di Macri e il suo populismo non passa dall’economia bensì dalla promessa di una svolta securitaria. L’Argentina ha da tempo un serio problema di sicurezza, dovuto da un lato alle conseguenze di una povertà crescente e, dall’altro, al radicamento del narcotraffico nei quartieri più poveri. La ricetta proposta da Patricia Bullrich per combattere questa situazione non accenna minimamente agli aspetti sociali, al ruolo della scuola e alla prevenzione, ma ripete il modello che Nayib Bukele sta portando avanti nel Salvador. Costruire cioè un gigantesco carcere “smart” nel quale rinchiudere e isolare i detenuti. Una prigione moderna, dove non si prenda Internet e lavori personale ben pagato e incentivato. Il modello del Salvador è nel mirino degli organismi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani, ma ha reso molto popolare il suo presidente. Il populismo della Bullrich si caratterizza quindi per la promessa di stroncare la delinquenza soltanto attraverso la repressione e il carcere, lasciando nell’ombra la proposta economica e sociale.

E poi c’è lui, il candidato a sorpresa che rischia di diventare presidente: l’economista Javier Milei, una versione estrema di Trump e Bolsonaro. Ripropone, radicalizzandole, le ricette elaborate dall’economista Domingo Cavallo e applicate da Carlos Menem negli anni ’90 del secolo scorso, che cambiarono per sempre (e non in meglio) lo Stato argentino. Milei ha promesso di chiudere la Banca Centrale, eliminare il peso adottando il dollaro, licenziare migliaia di dipendenti pubblici che sono stati nominati dalla “casta”, chiudere i ministeri “inutili” quali l’Ambiente o il Welfare, rompere le relazioni diplomatiche con qualsiasi Paese comunista, Cina inclusa, e cambiare la linea internazionale dell’Argentina schierandola sempre e solo con gli Stati Uniti. Il populismo di Milei è quello della “sparata”: promette ciò che sa benissimo che non potrà fare, soprattutto perché, anche vincendo, non avrebbe la maggioranza parlamentare. Ma crea aspettative, si scaglia contro i politici, anche se lui stesso lo è, e convince persone che non hanno gli strumenti per giudicare ciò che dice. Dopotutto, nasce come personaggio televisivo: ha una capacità di usare i media superiore a quella di tutti gli altri candidati.

Alle primarie obbligatorie del mese di agosto, i tre candidati si sono divisi l’elettorato in fette quasi uguali. Un terzo di voti a testa per ciascuna sfumatura di populismo. Forse, ancora una volta, l’Argentina anticipa i tempi rispetto al futuro che ci aspetta. Abbiamo già conosciuto gli Orbán, i Bolsonaro, i Trump, ma in contesti dove c’erano forze responsabili in grado di contrastarli. In Argentina non è così. L’intera offerta politica ha il marchio di fabbrica del populismo, che non è sinonimo di una politica “popolare”, non lavora per elevare la condizione economica e culturale della gente, ma usa il popolo per raggiungere i propri obiettivi, assecondando e amplificando gli umori della strada. In Argentina vincerà chi sarà in grado di lisciare il pelo degli elettori con le promesse, vere o false, che faranno più rumore, che sembrino più rivoluzionarie e facciano sognare, almeno per quei pochi giorni che passano tra l’insediamento di un presidente populista e la smentita delle promesse fatte in campagna elettorale.