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Le guerre, almeno dai tempi della Grecia classica in poi, si sono combattute anche sui mari. Non solo: nella lunga parentesi di storia dell’umanità in cui la navigazione è stata l’unica via di comunicazione intercontinentale, il controllo dei punti critici e di passaggio tra un mare e l’altro è stato sempre un obiettivo strategico primario. Per questo motivo le isole e gli stretti hanno sempre avuto un ruolo importantissimo nella geopolitica delle potenze. Alcune isole hanno svolto, nei secoli passati, una funzione in qualche modo simile a quella delle portaerei: fungevano da basi militari in mezzo alle acque, oltre che da punti di scalo imprescindibili per le comunicazioni e il rifornimento delle flotte. Malta, Cipro, Hispaniola, Azzorre, Falkland, Réunion, Sant’Elena, Zanzibar, Diego Garcia, Molucche sono sempre state terre poco popolate e lontane da tutto, ma vitali per garantire porti sicuri dove ancorare e rifornire le navi.

Storicamente, la potenza che meglio è riuscita a controllare i passaggi oceanici è stata l’Inghilterra vittoriana, e la posizione dominante inglese è in buona parte sopravvissuta al declino post-imperiale. Oggi, a livello mondiale, il fronte di conflitto più caldo è quello del mar della Cina e del Pacifico. È qui che si sta giocando una partita che sembra uscita dal passato, nella quale ci si sfida per garantirsi il controllo di una miriade di isole insignificanti dal punto di vista demografico ed economico, ma fondamentali nelle strategie militari della Cina e degli Stati Uniti. Molto rumore ha fatto la decisione delle Isole Salomone di sottoscrivere un trattato economico e di sicurezza con la Cina, aprendo un varco in una zona dell’Oceania considerata da sempre legata agli Stati Uniti, tramite l’Australia. Sono 18 le nazioni insulari che fanno parte del Forum delle Isole del Pacifico: di queste ormai 10 stanno con Pechino, mentre due hanno riconosciuto Taiwan e altre sei sono alleate occidentali. È una partita a scacchi quella tra Cina e la coppia Australia-Stati Uniti, Paesi che recentemente insieme al Regno Unito hanno dato vita a un’alleanza militare, l’Aukus, in chiave anticinese. Pechino sta lavorando da anni per ottenere in concessione basi navali che le consentano di estendere virtualmente le proprie frontiere in funzione difensiva, mentre gli alleati degli Stati Uniti vorrebbero schiacciarla entro i propri confini continentali, garantendo inoltre l’indipendenza di Taiwan.

Stiamo assistendo a una delle prime puntate di una nuova Guerra Fredda, che in Ucraina e in Africa è già diventata molto calda. C’è però una differenza abissale rispetto al passato, ed è che USA e Cina, le due potenze globali, sono sì antagoniste sul piano militare e politico, ma anche perfettamente integrate tra loro dal punto di vista economico. Questa contraddizione macroscopica, che ai tempi dell’URSS era inimmaginabile, fa sì che ci siano fortissimi rapporti di interdipendenza tra le potenze rivali. Legami vitali per entrambe le parti, che nessuno può davvero permettersi di recidere.

È dunque la globalizzazione a relativizzare gli effetti delle guerre. È una situazione che stiamo vivendo anche in Europa, con l’UE che è fortemente schierata a difesa, anche armata, dell’Ucraina, ma che in questi mesi di guerra ha versato a Mosca oltre 50 miliardi di euro per pagare l’energia importata. Le difficoltà dell’Europa, dipendente dal gas e dal petrolio russo, sono le stesse che gli Stati Uniti incontrerebbero nel caso dovessero arrivare a un conflitto aperto con la Cina. Le industrie e l’agricoltura statunitensi, e le tasche dei consumatori, non reggerebbero a un embargo sull’import cinese. E anche per la Cina sarebbe un disastro perdere il principale mercato di sbocco delle sue merci.

Tutta la complessità e tutta la nuova fragilità del mondo stanno qui. È una situazione inedita e ancora non compresa fino in fondo, che mette in crisi addirittura lo strumento più antico di risoluzione delle controversie: le guerre. Forse non lo hanno capito nemmeno gli stessi Paesi che ora sono impegnati a giocare la partita del Pacifico, contendendosi isole e punti chiave: agiscono per riflesso condizionato, perché si è fatto sempre così, ma le vere guerre oggi non si combattono con le navi, si vincono o si perdono sul tavolo dell’economia.

Il grande gioco del Pacifico

Pubblicato: 27 settembre 2021 in Mondo
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La pandemia ha accelerato un processo già in corso da anni: la materializzazione di una nuova era nello scontro geopolitico ed economico globale. Che sarà molto diversa sia dalla Guerra Fredda, nella quale prevaleva la dimensione geopolitica, sia dalla fase della cosiddetta “guerra al terrore”, che fuori dal Medio Oriente diventava un concetto virtuale. La nascita dell’alleanza Aukus, in funzione anti-cinese, tra USA, Regno Unito e Australia ha definitivamente sancito lo spostamento delle priorità delle potenze mondiali nel Pacifico, e non solo sul piano militare: anzi, la contesa più complessa è quella che riguarda il partenariato economico.

Era stato Barack Obama a lavorare per costruire un’alleanza economica che isolasse la Cina: all’epoca si parlava di partenariato trans-Pacifico, la sigla era TPP. Il progetto venne fatto saltare in aria da Donald Trump con una delle sue prime mosse, nel 2018. Ma gli 11 Paesi americani, asiatici e dell’Oceania che avevano sottoscritto quell’accordo andarono avanti senza gli USA, dando vita all’alleanza economica CPTPP, nota anche come TPP-11.

Nel frattempo, lo scorso novembre è stato firmato il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), un accordo di partenariato economico tra 15 Paesi di Asia e Oceania comprendente la Cina. Lo stesso giorno in cui Joe Biden ha annunciato la nascita dell’alleanza militare con Londra e Canberra, Pechino ha inoltrato formale richiesta di adesione anche al TPP-11, fronte lasciato sguarnito da Washington, con buone possibilità di entrarvi.

L’ondata di accordi commerciali che mirano a potenziare i legami tra i Paesi delle due sponde del Pacifico fu architettata dagli Stati Uniti in chiave di contenimento della Cina: un processo che si accompagnava con il disimpegno dal Medio Oriente, l’abbandono dell’Africa e dell’America Latina e con una presa di distanza dall’Europa. Quella linea di politica estera, continuata solo in parte da Trump, è stata ripresa da Biden, che in un discorso dello scorso gennaio ha delineato le sue priorità per l’Asia e la Cina. Il paradosso è che, dopo la presidenza Trump, gli USA si ritrovano esclusi dagli accordi commerciali mentre la Cina è riuscita a entrarci. A questo punto, la nascita dell’Aukus può essere letta da un’altra angolatura: considerando irrimediabili i danni provocati dalla decisione di Trump di abbandonare l’accordo commerciale con i Paesi del Pacifico, e vista l’abile mossa della Cina che è riuscita a trarne vantaggio, per gli Stati Uniti l’unica opzione rimasta sul tavolo era quella militare. Cioè dimostrare da vicino alla Cina che, sul piano militare, la differenza con gli USA rimane incolmabile. Da qui discende l’alleanza obbligata con Canberra, e di conseguenza con Londra, per ottenere facilitazioni logistiche nei dintorni della Cina.

Si può già intravedere come questa politica, oltre a provocare effetti collaterali gravi come il deterioramento dei rapporti con l’Europa comunitaria, sia destinata a fallire. Sarà fallimentare perché la Cina continuerà, come ha sempre fatto, a combattere la sua guerra per la supremazia sul piano economico e non su quello militare. I sommergibili nucleari che arriveranno all’Australia, che difficilmente avrà le risorse e la capacità per gestirli, potranno servire forse per tutelare Taiwan e poco più. La sfida tra Cina e Stati Uniti continuerà a passare dalla dipendenza del mercato americano dall’industria cinese, dall’accaparramento da parte di Pechino delle materie prime strategiche, dalla penetrazione anche politica della Cina nei continenti abbandonati dagli USA e dal ruolo cinese di grande creditore dei titoli di Stato emessi da Washington. Tutto questo non potrà essere arginato con i sommergibili nucleari, casomai con la politica e la diplomazia. In poche parole, meno armi e più politica. Qualcosa che agli Stati Uniti riesce difficile, dopo decenni nei quali si è puntato tutto sui cannoni.