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E’ legittimo ormai chiederci se ci troviamo di fronte all’inizio di un nuovo imperialismo agricolo. Questa domanda non retorica del New York Times si riferisce ai dati che confermano la progressiva e veloce colonizzazione di terreni agricoli in diversi Paesi dell’America Latina, dell’Asia e soprattutto dell’Africa. Ormai siamo alle soglie di una vera e propria “corsa alla terra”, considerata un bene prezioso per poter fare fronte ai previsti cali di produttività dovuti al cambiamento climatici. I Paesi ricchi ma privi di risorse naturali, in Medio Oriente, Asia e altre zone del mondo, cercano di avviare la produzione di generi alimentari dove i campi sono abbondanti e a buon mercato. Gran parte della terra coltivabile del pianeta, però, è già sfruttata. Uno studio della Banca Mondiale e della FAO ha rivelato che una delle più grandi riserve di suolo sottoutilizzato è costituita dai 600 milioni di ettari della savana guineana, una distesa di terra che attraversa 25 Paesi africani e si sviluppa dal Senegal all’Etiopia fino al Congo e all’Angola. E qui che avvengono le operazioni di affitto-terre che stanno cambiando volto all’agricoltura africana. Transazioni che quasi sempre avvengono in silenzio  e sulle quali è  difficile  ottenere informazioni. È il caso dell’iniziativa lanciata da IKEA per riconvertire l’illuminazione dei  magazini  italiani a criteri ecologici attraverso l’utilizzo di biocombustibili. L’accordo con la NII (Nuove Iniziative Industriali della famiglia Orlandi, con sede a Galliate, in provincia di Novara) prevede la fornitura di olio di jatropha coltivato in Africa per alimentare l’impianto elettrico e il riscaldamento dei locali. La NII ha ottenuto concessioni di terra piuttosto importanti nel Continente Nero: 50.000 ettari in Kenya, altrettanti in Etiopia, 40.000 in Senegal e ben 700.000 in Guinea Conakry. L’azienda novarese, in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore, afferma che si tratta di terreni finora incolti e che, nel solo Kenya, l’attività creerà impiego per 8.000 persone. Nessuna informazione è reperibile invece sulle condizioni patteggiate per l’utilizzo delle terre, né sui controlli relativi alle modalità di utilizzo delle stesse, né su quale sia la situazione della sicurezza alimentare nella realtà locale, visto che si produrranno materie prime non alimentari che per l’80% finiranno nel continente europeo.

La corsa alle terre sta velocemente cambiando la faccia di intere regioni e l’elenco dei Paesi e dei gruppi che si affacciano su questo nuovo mercato aumenta. Oltre ai coreani, che controllano 1,6 milioni di ettari, si distinguono i giapponesi con 922.000 ettari, gli Emirati Arabi con 1,61 milioni di ettari, l’India con 1,64 milioni e la Cina con 3,4 milioni di ettari distribuiti tra Europa, Asia, America e soprattutto Africa. Soltanto in Repubblica Democratica del Congo i gruppi cinesi si sono appropriati di ben 2,8 milioni di ettari di terre produttive. Nella geografia delle terre agricole non bisogna sottovalutare i  gruppi privati, come la coreana Daewoo che controlla 13.000 kmq in Madagascar. Questo nuovo business globale potrebbe produrre un crack definitivo per l’agricoltura di molti Paesi a rischio, occupando terre che, anche se incolte, verranno sottratte per un secolo a qualsiasi ipotesi di sviluppo del mondo rurale e che saranno riconsegnate, se mai lo saranno, totalmente esaurite dal punto di vista produttivo e ambientale