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«Se una razza non ha una storia, non ha delle tradizioni utili, essa diventa un fattore insignificante nel pensiero del mondo, e si trova in pericolo di essere sterminata». Così scriveva Carter Godwin Woodson, lo storico afroamericano che nel 1915 fondò l’Associazione per lo Studio della Vita e della Storia dei Neri Americani. Sottolineando l’importanza di recuperare la propria storia e farla conoscere, nel 1926 Woodson annunciò la nascita della Settimana della Storia dei Neri. Un appuntamento annuale fissato a febbraio, diventato nel 1970 Mese per la Storia dei Neri e nel 1976 evento nazionale, quando il presidente Gerald Ford lo inserì nel calendario ufficiale degli Stati Uniti. Qualche anno più tardi anche il Canada e il Regno Unito hanno adottato questa modalità di ripercorrere la storia dei popoli afroamericani, a lungo negata e oscurata. Letteratura, scienza, arti, politica sono solo alcuni campi nei quali si ricorda il contributo della storia nera alla nascita delle nazioni americane. Gli afroamericani sono stati infatti una componente importantissima nella storia del Nordamerica in entrambe le fasi della loro presenza: come manodopera schiava, nella produzione di quelle materie prime che, poi trasformate, fecero diventare gli Stati Uniti una potenza industriale; e successivamente da uomini e donne liberi, impegnati in ogni settore della vita pubblica della federazione. Grazie all’informazione e più in generale ai vari media a partire da cinema e televisione, sappiamo molte cose sulla lenta emancipazione degli afroamericani statunitensi, dalla schiavitù fino all’elezione del primo presidente nero nel 2009.

In realtà, la diaspora nera nel continente americano è stata ancora più cospicua nell’America non anglosassone, almeno numericamente, con le varie enclave afroamericane delle ex colonie spagnole, le isole caraibiche già francesi o inglesi, oggi a maggioranza afrodiscendente, e con il Brasile, grande colonia schiavista portoghese. Eppure in Italia è poco e frammentario ciò che si sa del mondo afroamericano dell’America Latina. Il libro di Diego Battistessa America Latina afrodiscendente, una storia di (R)esistenza, pubblicato dalle Edizioni Arcoiris, va a colmare questo vuoto. I 133 milioni di afrodiscendenti latinoamericani, un quarto dei quali vive nel solo Brasile, hanno una loro storia che raramente è stata raccontata dalla storia ufficiale, anche in America. Battistessa incrina lo stereotipo del nero che soffre passivamente sotto la frusta del padrone nella piantagione e ci illustra numerose pagine di ribellione, con i profili dei condottieri che guidarono la diaspora a ritrovare una nuova libertà nei quilombos brasiliani, nei palenques della Colombia o nelle Blue Mountains giamaicane: repubbliche e regni africani indipendenti in terre americane, perché l’anelito di libertà non era stato annientato dalla frusta dei capataces

Si tratta di storie di resistenza ma anche di partecipazione alle guerre per l’emancipazione dagli Stati coloniali europei, soprattutto nei Paesi del Cono Sud, fino alla grande rivoluzione nera che portò all’indipendenza di Haiti nel 1804, secondo Paese americano dopo gli Stati Uniti a liberarsi dal colonialismo. Storie di ieri e di oggi, perché la lotta per i diritti degli afroamericani, che ancora scontano la loro posizione subordinata al mondo dei bianchi, non è cessata. Anzi, nell’ultimo capitolo del suo libro Battistessa ci racconta le odierne battaglie di donne afroamericane che su diversi fronti continuano una lotta centenaria.

La condizione femminile nella realtà afroamericana è il tema di un altro libro pubblicato in Italia recentemente su questo tema: Mujeres.Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi dell’antropologo Raúl Zecca Castel, sempre edito da Arcoiris. Zecca Castel segue la vita di sette donne di origine haitiana che vivono nei bateyes della Repubblica Dominicana, i villaggi dei braccianti della canna da zucchero che tuttora ricordano drammaticamente i tempi della schiavitù. È importante che in Italia siano stati pubblicati questi due libri su un tema apparentemente estraneo alla nostra storia e che invece ci appartiene, anche se lo abbiamo oscurato dimenticando il passato da colonizzatori in Africa.

Dopo l’elezione di Kamala Harris a vicepresidente degli Stati Uniti, sui media si è riversata un’ondata di retorica che ha esaltato alcuni dati della sua biografia come se fossero qualificanti. Questo soprattutto in Europa, dove ancor oggi i termini “immigrato” e “nero” sono automaticamente associati una condizione di marginalità e a lavori non qualificati. La posizione raggiunta da Harris, infatti, è stata presentata da alcuni come un “miracolo” per via della condizione dei genitori, immigrati di colore. Andando però a verificare, tanto il padre quanto la madre facevano parte dell’élite del mondo delle professioni, ambito nel quale, ormai da qualche tempo, le differenze etniche sono state praticamente abolite: a contare sono in primo luogo i titoli. Il padre di Kamala Harris, giamaicano, si è laureato a Berkeley in economia ed è professore emerito a Stanford; la madre, indiana, è stata endocrinologa e oncologa di fama internazionale per via delle sue ricerche sul tumore al seno. Per questo le loro due figlie hanno potuto frequentare scuole e università importanti e costose senza bisogno di borse di studio.

La questione razziale è di grande attualità negli Stati Uniti, ma i drammatici fatti di cronaca avvengono parallelamente all’affermazione di una borghesia di colore che si è costruita sulla base dello studio e dell’esercizio delle professioni. Una classe sociale che spesso non ha ereditato nulla, a differenza di molti bianchi benestanti, e si è costruita da sola anche grazie alle affirmative actions, che hanno imposto quote obbligatorie per le minoranze etniche in diversi settori della vita pubblica del Paese. Ma questa tutela non è necessaria per tutti: molti statunitensi non bianchi, come la Harris o Barack Obama, hanno scalato i gradini della società e della politica potendo contare sulla solidità culturale ed economica delle loro famiglie. Già 50 anni fa, infatti, negli Stati Uniti esisteva una “borghesia delle professioni” di colore, anche se meno numerosa rispetto a quella di oggi. È questa la differenza con l’Europa, soprattutto con quella mediterranea: la maggior parte degli afroamericani non sono immigrati ma statunitensi da qualche secolo, e anche gli immigrati di colore sono in buona percentuale persone che si spostano per studio o per carriera. I lavori più umili, in campagna o nel servizio alle persone, sono svolti in maggioranza da messicani e centroamericani.

Senza dubbio l’affermazione di una donna non bianca ai vertici della politica costituisce ancora una notizia, ma più che altro per il fatto che si tratta di una donna, non per il colore della pelle. Solo secondo i canoni europei Harris può apparire come una “miracolata” in quanto figlia di immigrati indiani e giamaicani; secondo i canoni USA, invece, si tratta di una persona che ha avuto una carriera lineare, come quella di Barack Obama. È un peccato che l’opinione pubblica europea sbagli mira, perché l’unica cosa da sottolineare (una e cento volte) è che si tratta di una donna, la prima negli Stati Uniti ad arrivare così in alto: una vicepresidente che potrebbe succedere a Joe Biden alla guida degli Stati Uniti. Se questo succederà, sarà sì un fatto storico e inedito e non soltanto per gli Stati Uniti. Ma sempre perché sarebbe la prima donna della Storia al vertice di una superpotenza. Invece, fare di una persona un’icona mondiale per via dell’appartenenza etnica o della condizione migratoria dei genitori è un insulto alla ragione e alla stessa Harris.