Le manifestazioni di protesta esplose a Los Angeles contro la svolta repressiva del governo Trump nei confronti degli immigrati irregolari segnano un cambiamento epocale sul tema migratorio nel Paese che più di ogni altro ha costruito la sua identità a partire proprio dall’afflusso di persone da tutto il mondo. Simbolico anche che ciò accada a Nuestra Señora la Reina de los Ángeles, città fondata nel 1781 dagli spagnoli, appartenuta al Messico fino al 1847. Oggi la megalopoli di Los Angeles, considerando anche l’area metropolitana, conta circa 13 milioni di abitanti: quasi la metà sono latinos, cioè messicani e centro-americani che ne fanno una delle più grandi città al mondo di lingua spagnola. Ed è proprio a Los Angeles che si sta concentrando la politica di espulsione degli irregolari, creando inevitabili tensioni e disordini, soprattutto perché i bersagli dell’ICE, l’agenzia di sicurezza statunitense che controlla l’immigrazione, non sono gang criminali o spacciatori di droga, ma lavoratori perfettamente integrati nel tessuto sociale ed economico del Paese: proprio per questo sono facili da individuare, e gli arresti avvengono soprattutto nei posti di lavoro.

In Europa questa sarebbe un’anomalia, perché i clandestini vivono ai margini della società in condizioni di assoluta precarietà. Negli Stati Uniti, invece, esiste da tempo un patto tacito tra “clandestini” e Stato che consiste sostanzialmente nella tolleranza verso la presenza degli immigrati irregolari, che possono condurre una vita quasi normale – non solo lavorare, ma anche comprare auto e casa, mandare i figli a scuola, lavorare – restando però sempre ricattabili, in quanto “irregolari”. È uno status che per molti può durare decenni o non cambiare mai, malgrado ci siano state alcune sanatorie. Essere irregolare ovviamente blocca la possibilità di diventare cittadino statunitense, ma i figli di queste persone, se nati negli USA, ne sono cittadini dalla nascita. Si calcola che questo esercito di precari-integrati sia di circa 15 milioni di persone: la popolazione di un Paese medio europeo. Lavorano nella galassia dei servizi, dell’edilizia, dell’industria.

Donald Trump, con i rimpatri forzati, sta rompendo questo patto storico, finora rispettato da tutte le amministrazioni passate, anche perché strumentale all’economia di diversi Stati, soprattutto del Sudovest, che necessitano continuamente di manodopera a basso costo, meglio se ricattabile, in cambio della promessa, spesso utopica, di poter diventare “americani”. Con queste politiche, la nazione fondata sull’immigrazione si fa più “europea” e blinda i propri confini, espellendo anche chi, in passato, era riuscito a superarli con fatica. In questo senso gli USA diventano più simili al resto dell’Occidente, ma il punto è quanto tutto ciò – se Trump non cambierà linea – inciderà sull’economia di Stati come Texas o California, dove sono gli irregolari e gli immigrati in generale a tenere in piedi interi comparti, dai servizi all’agricoltura.

La guerriglia in corso a Los Angeles, costellata da bandiere messicane, racconta anche che se il sogno della cittadinanza USA sfuma, si rafforzano le radici culturali d’origine. Ed è proprio questo il punto critico: è davvero possibile creare una spaccatura tra “noi” e “loro” in quel terzo degli Stati Uniti che una volta era Messico, e che è figlio di una storia comune fatta sì di conflitti, ma poi anche di intrecci e valori condivisi? Poi, quando a portare avanti queste politiche è il nipote di un immigrato tedesco, che per giunta è sposato con un’immigrata che è stata pure irregolare, tutto diventa grottesco.

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