Nel cuore della foresta amazzonica c’è un popolo che si considera “figlio del guaraná”. È il popolo dei Sateré-Mawé, una delle centinaia di etnie indigene che vivono nella più grande foresta primaria del mondo. I Sateré sono circa 10.000 e sono distribuiti lungo i fiumi Andirá e Marau: il loro territorio ancestrale, vasto quanto l’Abruzzo, è stato riconosciuto dallo Stato brasiliano con la Costituzione del 1988.

Ma i Sateré nell’ultimo secolo hanno sofferto la “vicinanza” di Manaus, la capitale dell’Amazzonia brasiliana, che ha attirato i giovani indigeni alla ricerca di opportunità economiche e ha irradiato una cultura dei consumi impossibile da soddisfare nei villaggi della foresta. A Manaus si è così creata una folta comunità di indios amazzonici che svolgono lavori umili e vivono nelle baraccopoli delle periferie, senza futuro e culturalmente sradicati.

Il popolo Sateré lentamente e inesorabilmente si stava estinguendo, con la conseguenza che le sue terre, una volta svuotate, sarebbero rimaste una riserva indigena solo sulla carta, finendo con l’essere spartite.  Quindici anni fa alcune figure guida della comunità Sateré decisero di provare a fermare questo lento declino a partire da una lettura molto peculiare della globalizzazione. L’ipotesi di partenza era che quanto il loro popolo aveva di più sacro, cioè il prodotto energizzante della liana di guaraná, potesse diventare il simbolo di una rinascita culturale e allo stesso tempo una fonte di reddito per gli indigeni che continuavano a vivere nella foresta.

Iniziò così un lungo percorso di formazione, ripristino dei guaraneti e tessitura di alleanze commerciali che ha portato, dopo pochi anni, il sacro guaraná dei Sateré-Mawé sugli scaffali dei supermercati italiani con il marchio Guaranito. Un prodotto tradizionale di una tribù amazzonica è diventato prodotto di nicchia globale. Una materia prima della foresta, raccolta in modo sostenibile, è diventata presidio Slow Food, prodotto del commercio equo e solidale e ora anche opportunità di turismo responsabile. Alla prova dei fatti, il progetto guaraná ha segnato un cambio di rotta e di vita per gli abitanti dei territori ancestrali Sateré. Un punto di orgoglio e una fonte di entrate per le famiglie, favorite anche dalle politiche di lotta alla povertà introdotte dal governo Lula.

Oggi i giovani indios non devono più emigrare obbligatoriamente nella città, possono scegliere. Per la prima volta, nell’Università di Manaus ci sono studenti provenienti dalla riserva indigena che studiano per difendere i diritti della loro gente e per gestire l’immenso patrimonio naturale della foresta. Il progetto-guaraná è una delle tante piccole, grandi storie di successo rese possibile dalle potenzialità, in questo caso positive, offerte dalla globalizzazione e dal superamento del rapporto centro-periferia su scala planetaria. Ciò che non è cambiato, almeno per ora, è il rapporto tra noi urbanizzati e coloro che vivono a contatto con la natura.

Per festeggiare il successo avuto dalla loro intuizione, i Sateré-Mawé hanno liberato nel fiume centinaia di tartarughe acquatiche allevate dai bambini della foresta. Si tratta di esemplari di una specie che, negli anni passati, aveva rischiato di scomparire, in quanto queste tartarughe erano diventate parte integrante della povera dieta quotidiana degli indios. L’economia solidale ha dimostrato ancora una volta che non solo si può rendere giustizia a popoli e persone relegate ai margini della storia, ma si possono anche ripristinare equilibri millenari. Nella foresta dei Sateré-Mawé, il guaraná equo e solidale fa bene anche alle tartarughe.

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network)

guarana

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