Dalle pieghe della crisi sta emergendo un dato inaspettato: dopo anni e anni di disquisizioni sulla liquefazione delle identità e delle economie locali, destinate a fondersi nell’immenso pentolone della globalizzazione, ecco che rispuntano con forza gli Stati nazionali. La vecchia, solida struttura politico-amministrativa sulla quale, dal Trecento in poi, si è basata la costruzione degli odierni Stati ha riacquisito la sua centralità per una ragione semplice: nella tempesta finanziaria è proprio dagli Stati che sono arrivate, buone o cattive, le uniche risposte concrete. Gli organi transnazionali invece tacciono.
La retorica della globalizzazione ci spiegava che quella nazionale era una dimensione superata, sia dalle aggregazioni regionali sia dagli organismi multi-bilaterali. Fino al 2010 la cronaca internazionale descriveva il FMI, il WTO, l’Unione Europea e il G20 (per non parlare di Internet) come i nuovi detentori del potere. Che non sarebbe stato più nazionale bensì, appunto, globale. Oggi, invece, i giornali riportano quotidianamente solo le dichiarazioni dei presidenti o dei primi ministri di Francia, Germania, Stati Uniti e Cina. Si dibatte sul ruolo della Germania in Europa, sul peso dell’asse franco-tedesco e sulla validità delle risposte americane alla crisi.
È innegabile che siano state le singole nazioni a salvare le banche e a pompare liquidità nel sistema, a stimolare l’economia e a preoccuparsi dei disoccupati. Del resto il lavoratore, la banca o l’azienda in crisi non chiedono certo aiuto alla Banca Mondiale, ma si rivolgono alle istituzioni dei rispettivi Paesi: si aspettano che siano i governi a risolvere i problemi, anche perché li ritengono responsabili di ciò che sta accadendo. Al contrario, gli organismi internazionali non vengono percepiti, se non da minoranze intellettuali, come i responsabili dei grandi disastri politico-economici, anche se spesso ne sono i primi colpevoli.
In un recente saggio il professor Dani Rodrik, docente di Economia ad Harvard, ha criticato pesantemente Amartya Sen per aver parlato dell’esistenza di una nuova “identità multipla” che oltrepasserebbe i confini nazionali: recenti ricerche condotte tra la popolazione degli Stati Uniti rilevano invece che oggi l’attaccamento all’identità nazionale è altissimo, tanto da mettere in ombra perfino le identità locali. È facile ipotizzare che, se la ricerca venisse riproposta in Europa, i risultati sarebbero simili.
Molto probabilmente, in questi anni, media e sociologi hanno confuso l’omologazione dei cittadini al modello di consumo proposto dalle grandi multinazionali con un effettivo cambiamento di percezione delle persone rispetto al loro Paese e al resto mondo. Invece lo Stato di appartenenza rimane la “mamma”, amata e odiata, dalla quale il cittadino vorrebbe emanciparsi quando le cose vanno bene, ma alla quale si attacca quando le difficoltà prevalgono, aspettandosi protezione e cure. Al contrario le istituzioni sopranazionali appaiono incomprensibili, evanescenti, lontane dalla percezione del cittadino comune alle prese con problemi concreti. Per giunta esse hanno pochi poteri, perché gli Stati non hanno mai voluto trasferire loro consistenti quote di sovranità.
Secondo Rodrik, insomma, gli Stati nazionali saranno pure un relitto ereditato dalla storia, ma alla fine sono tutto ciò che abbiamo. C’è da dargli ragione.
Alfredo Somoza per esteri (Popolare Network)