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La vera politica ha sempre avuto due caratteristiche che oggi sono sfumate: l’arte di mediare tra i diversi interessi e la capacità di fare riforme che permettano ai cittadini di vivere meglio. Nell’attuale panorama post-politico, queste due virtù sono state rovesciate. Prima si lascia che la vita quotidiana delle persone si degradi, senza proporre riforme e rimedi, poi la risposta all’esasperazione dei cittadini è quella più facile: anziché costruire, far saltare in aria tutto.

Non vi sono dubbi sul fatto che l’aumento della criminalità, dovuto alla crescita del potere economico e militare dei cartelli della droga, colpisca soprattutto i ceti più deboli. Il continente americano è, da questo punto di vista, un laboratorio. Nei decenni in cui il potere dei cartelli cresceva, gli Stati Uniti non hanno fatto nulla di significativo per risolvere il problema del consumo a casa loro, né i Paesi latinoamericani si sono davvero impegnati per ostacolare il potere dei signori della droga. Il meccanismo è sempre lo stesso, la droga viaggia verso nord, armi e soldi ripuliti viaggiano verso sud. Infatti, il 74% delle armi sequestrate ai narcos messicani proviene dagli Stati Uniti: in buona parte si tratta di dotazioni dell’esercito USA, come ha denunciato la presidente messicana Claudia Sheinbaum. Eppure, non ci sono mai state indagini per capire come sia possibile questo traffico di morte.

La risposta del governo Trump è stata dichiarare i cartelli messicani gruppi terroristici e deportare in Salvador centinaia di presunti affiliati alla struttura criminale venezuelana Tren de Aragua. Sempre il nemico esterno, mai un problema della società e della politica statunitensi.

Anche in materia economica, la linea del tagliatore di teste Elon Musk è abbattere il tronco della spesa federale, senza individuare i rami superflui che hanno accresciuto l’indebitamento dello Stato. Si tagliano servizi, si eliminano posti di lavoro senza una riflessione, in modo approssimativo e sommario. Così non si raggiungerà nessun obiettivo concreto. I moderni moralizzatori si vantano di affrontare di petto i problemi, ma lo fanno senza valutare le conseguenze delle loro azioni e senza mai considerare la complessità di uno Stato moderno. Si taglia la Sanità, si taglia l’impiego pubblico, si tagliano i servizi. E chi non ha la capacità economica di pagarsi privatamente ciò che gli è stato tolto deve ingegnarsi per sopravvivere. Nella lotta al narcotraffico tutta l’attenzione è sulla fase repressiva, mai si fa un ragionamento sulla miseria del mondo contadino dove si coltivano le materie prime da cui si ricavano gli stupefacenti, o sulla marginalità delle periferie urbane dove si reclutano i soldati della droga e sul disagio sociale che porta anche all’aumento del consumo di sostanze.

Il problema è che l’illusione di risolvere i problemi per le vie brevi, senza preoccuparsi di intaccarne le cause, riscuote consensi elettorali anche se, alla prova dei fatti, si rivela un moltiplicatore delle criticità che vorrebbe sanare. Proprio questo pensiero di breve gittata non permette di affrontare i grandi problemi. Come per il cambiamento climatico: davanti all’incapacità di cambiare rotta rispetto all’uso dei combustibili fossili, si cercano ricette semplici per mitigarne gli effetti. E il problema resta sempre lì, anzi, aumenta.

Ma anche limitarsi a dire che in questo mondo mancano gli statisti lungimiranti è semplicistico: la classe politica è spesso lo specchio dei tempi. Quando un cittadino si convince che basti mettere like a un post brillante per cambiare le cose, diventa plausibile che la politica pensi di porre fine alla delinquenza solo con la repressione, o di limitare il cambiamento climatico piantando cactus là dove prima crescevano gli aceri. La verità è che non esistono ricette magiche per cambiare rotta, e il tempo che stringe dovrebbe farci aprire una riflessione seria, al di sopra le ideologie. Anche perché, finora, tutte le ideologie si sono dimostrate incapaci di interpretare correttamente il mondo. 

La politica del “liberi tutti” dalle regole del WTO, e la minaccia statunitense di applicare dazi sulle merci dei Paesi con i quali gli USA hanno una bilancia commerciale in negativo, presentano anche opportunità per quegli Stati che accettano di allinearsi velocemente con il nuovo inquilino della Casa Bianca. Proprio in queste opportunità si annida un conflitto d’interessi di proporzioni gigantesche, forse il più grande mai visto, perché in diversi casi gli Stati che potrebbero ottenere vantaggi sono quelli dove il più illustre neo-funzionario dell’amministrazione Trump, Elon Musk, sta facendo o intende fare affari. Internet e auto elettriche sembrano essere la chiave di lettura di ciò che sta accadendo in Asia. Il Vietnam ha approvato una legge che apre il mercato interno ai gestori di internet che operano con satelliti a orbita bassa: si legge Starlink. L’India, dove il premier Modi non ha mai nascosto le sue simpatie per Donald Trump in chiave anticinese, ha accettato di abbassare i dazi sull’import di auto elettriche di costo superiore ai 40.000 dollari, portandoli dal 110 al 70%: si legge Tesla. Pare che in questo caso abbiano avuto effetto le minacce di colpire l’export verso gli Stati Uniti, che sarebbe costato all’India una perdita di 7 miliardi di dollari. La stessa propensione ad allinearsi ha dimostrato il presidente argentino Javier Milei, in questo caso con convinzione: sta aprendo il mercato argentino ai servizi di Starlink e sta discutendo con Musk sulle concessioni relative al litio, materia prima vitale per le batterie elettriche. Anche Taiwan non potrà contare soltanto sulla “solita” rendita geopolitica per avere l’appoggio degli USA nel contenimento della Cina. L’isola, primo produttore mondiale di microchip, si impegnerà per cifre miliardarie nell’acquisto di missili da crociera a stelle e strisce di ultimissima generazione: in questo caso sarà la potente industria bellica USA a trarne vantaggio.

Questa politica di Washington rappresenta il superamento della strategia dei dazi “duri e puri” attuata durante il primo mandato di Trump soprattutto contro la Cina, che si è dimostrata non solo poco efficace nel confronto con Pechino, ma anche controproducente nei rapporti commerciali con Paesi come Vietnam e Messico, che con le loro esportazioni hanno preso il posto della Cina. La novità è la saldatura tra gli interessi degli USA e quelli dell’uomo più ricco del pianeta: Starlink, in particolare, viene usata sia come arma di ricatto nella negoziazione sui dazi, sia come potente strumento di pressione sull’Ucraina, che per coordinare il proprio esercito dipende da questo sistema privato di satelliti. In questa diplomazia degli affari, gli Stati Uniti sfruttano la loro potenza politico-militare come poche volte nella storia un Paese si era permesso di fare.

L’ideologia MAGA, diffusa ogni giorno via social, si sta rivelando una coperta corta, che lascia intravedere ciò che vorrebbe nascondere: contano solo gli affari. Siamo di fronte a una realtà ambigua, di modernità reazionaria. Modernità perché si stanno spalancando le porte di settori avveniristici, strategici per il futuro dell’umanità, ai privati (o meglio, al privato); reazionaria perché questa politica si ammanta di princìpi retrivi, a dir poco discutibili, ma che comunque si possono sempre accantonare in nome del profitto. A fare la differenza non sarà il sostegno offerto da Musk e soci a forze di estrema destra relegate, almeno per ora, a fare opposizione, come AFD in Germania o Vox in Spagna; piuttosto, le conseguenze concrete verranno dalla dura politica di minacce in cambio di vantaggi commerciali, che potrà favorire l’economia degli Stati Uniti. Ma se il tanto proclamato ritorno all’età dell’oro promesso da Trump ai propri elettori si tradurrà nell’ulteriore arricchimento degli oligarchi dell’high tech, chi si era illuso si renderà presto conto che qualcosa non torna. Il populismo alla fine è sempre così: arriva al potere lisciando il pelo al popolo e promettendo benessere per tutti per poi fare gli interessi dei soliti, che sono pochi, in questo caso pochissimi. 

La seconda presidenza Trump potrebbe infliggere un colpo definitivo alla globalizzazione iniziata negli anni ’90 del secolo scorso. Ma, al suo interno, l’amministrazione che si sta per insediare a Washington sta covando contraddizioni che potrebbero smentire questo pronostico. Per ora, il presidente eletto ha parlato solo di dazi da applicare in modo punitivo praticamente a tutti i principali fornitori degli Stati Uniti. Messico e Canada, i primi due partner economici del gigante americano, sono stati minacciati con dazi del 35% sulle loro merci perché non farebbero abbastanza per contrastare narcotraffico e immigrazione verso gli USA. Accusa ridicola se si pensa al Canada, meno per il Messico. Tuttavia, come ha ricordato la presidente messicana Claudia Sheinbaum, le merci esportate dal suo Paese sono per la maggior parte prodotte da aziende statunitensi che, negli anni, hanno delocalizzato oltreconfine. L’effetto boomerang è quindi garantito. Lo stesso si può dire circa i dazi minacciati contro la Cina, una politica già intrapresa da Trump nella sua prima presidenza. Peccato che, alla fine, con la ritorsione cinese a rimetterci siano stati proprio gli Stati Uniti. Poi c’è l’Europa, che ha una bilancia in attivo negli scambi con gli USA, malgrado l’aumento dell’import di gas liquefatto a stelle e strisce per sostituire le forniture russe. Ma con il Vecchio Continente si pone un’altra questione vitale: riguarda la NATO, che Trump vorrebbe fosse maggiormente finanziata dai Paesi europei.

Sono numerosi, dunque, i fronti che confermano la cultura isolazionista e protezionista del nuovo inquilino della Casa Bianca, una cultura che cozza con le regole che gli stessi Stati Uniti hanno imposto al mondo negli ultimi decenni per favorire la globalizzazione. A questo punto, l’elefante nello studio ovale è rappresentato dagli oligarchi dell’high-tech statunitense, multimiliardari a capo dei maggiori gruppi economici mondiali, a partire dal fido Elon Musk. Il mondo nel quale questi imprenditori hanno potuto costruire la loro posizione dominante, arrivando in alcuni casi a stabilire veri e propri monopoli, è l’opposto di quello chiuso e isolazionista che sogna Trump.

Bezos, Zuckerberg, Musk hanno potuto crescere in mancanza di regolamentazione grazie alle caratteristiche del mondo modellato da Washington alla fine della guerra fredda. Nessun problema per spostare capitali, nessun problema per eludere il fisco locale, nessun dazio o barriera a penalizzare i loro prodotti. Come potrebbero mantenere il loro primato in un mondo che, inevitabilmente, risponderebbe alle chiusure statunitensi con altre chiusure? Quante automobili venderebbe ancora Musk, quanti contratti per i suoi servizi di internet satellitare potrebbe firmare, quanto tempo ci metterebbero i Paesi colpiti dai dazi di Washington a ostacolare, fiscalmente parlando, le attività di Amazon o di Meta?

Insomma, se Trump pensa di favorire il suo elettorato chiudendo l’economia statunitense, i suoi grandi finanziatori la vedono diversamente. Si potrebbe aggiungere che colpire con dazi l’import cinese andrebbe a svantaggio dei ceti più deboli negli Stati Uniti, che spesso possono permettersi soltanto i beni a basso costo in arrivo da Pechino.

Sono tempi difficili per i populismi di ritorno, che culturalmente vorrebbero tornare all’autarchia e allo statalismo, ma che devono fare i conti con un mondo che è cambiato nel quale le contraddizioni sono immense, a cominciare dalla prevalenza dell’economia sulla politica. La mano invisibile del mercato, per tanti anni presentata come l’unico strumento di regolamentazione dell’economia e della società tutta, non può sostituire la politica e non può avere gli stessi interessi e le stesse priorità; ma gli strumenti finora adoperati dai governanti per recuperare spazio sono risultati goffi, datati e spesso inapplicabili.