C’è un paradosso che domina la nuova stagione della politica estera statunitense: per difendere l’idea di un’America forte e autosufficiente, Donald Trump è costretto a riannodare i fili con quei Paesi che per anni ha indicato come avversari strategici. La promessa dell’“America First”, agitata come un vessillo identitario, si scontra oggi con la realtà di un’economia globale che non può essere imbrigliata nei confini del nazionalismo economico. E così, mentre la Casa Bianca rimodula i piani tariffari e rilancia negoziati bilaterali, due giganti si stagliano all’orizzonte come partner imprescindibili: Cina e India.
Il nodo principale è quello dei dazi. Dopo un’escalation di minacce e ritorsioni, Washington si trova a gestire un intreccio commerciale molto più complesso di quanto non fosse all’epoca del primo mandato di Trump. L’industria statunitense, dalla manifattura all’hi-tech, è profondamente inserita in catene del valore globali che passano necessariamente per Pechino e New Delhi. Componentistica, semiconduttori, materiali rari, farmaceutica, tessile e prodotti agricoli: direttamente o indirettamente, quasi ogni comparto dipende da forniture asiatiche. La retorica autarchica si è schiantata contro il muro della praticabilità. Negli ultimi mesi la Casa Bianca ha dunque avviato trattative più morbide con la Cina, mirando a un compromesso che salvaguardi gli interessi dei lavoratori statunitensi senza pregiudicare la stabilità delle imprese. L’obiettivo è ridurre alcuni dazi che pesano sull’importazione di beni intermedi, cruciali per l’industria nazionale, in cambio di garanzie sulle pratiche commerciali cinesi e sull’accesso al mercato. Trump non lo dice apertamente, ma il confronto frontale con Pechino ha generato un effetto boomerang: diversi settori statunitensi, dall’automotive all’elettronica di consumo, hanno denunciato costi insostenibili. E a dettare la linea, alla fine, è stata la realtà economica più che l’ideologia.
Parallelamente si gioca la partita con l’India e, a differenza della Cina, qui la posta in gioco non è solo commerciale ma anche geopolitica: oggi l’India è un partner strategico per la costruzione di un fronte asiatico alternativo all’area d’influenza cinese. Per questo Washington intende limare i contrasti tariffari che si sono accumulati negli anni, anche a costo di concessioni dal valore simbolico. Le imprese americane puntano a un accesso più ampio al mercato indiano, in particolare nei settori agricolo e tecnologico, mentre l’India chiede condizioni più favorevoli per l’export di prodotti farmaceutici e informatici. Entrambi i governi sanno che un’intesa agevolerebbe le catene di fornitura e ridurrebbe la dipendenza dalla Cina, un obiettivo condiviso anche se non sempre apertamente dichiarato.
Riallacciare i rapporti con i due colossi asiatici non è, per gli Stati Uniti, soltanto una mossa tattica, di riaggiustamento. È invece il riconoscimento implicito del fatto che l’economia nazionale non può permettersi una politica commerciale isolazionista. Da un punto di vista strategico, la competitività degli Stati Uniti passa dalla capacità di rimanere integrati nel sistema globale, non dalla volontà di sottrarsene. E in un mondo dominato da flussi di merci, di capitali e, sempre più, anche di dati, l’illusione dell’autarchia è diventata un lusso troppo costoso perfino per Washington. Lo dimostra, per esempio, la recente eliminazione dei dazi al 10% sui prodotti tropicali quali banane e caffè, che erano ricaduti interamente sui consumatori.
Il concetto di “America First”, comunque, non scompare. Cambia pelle e si trasforma da slogan muscolare in strategia di equilibrio: difendere gli interessi nazionali non significa più chiudere le porte, ma negoziare con maggiore pragmatismo. Cina e India, da rivali ingombranti, diventano interlocutori obbligati di una superpotenza che deve fare i conti con la complessità interdipendente del XXI secolo. Il risultato è una politica commerciale più sfumata, meno ideologica. Un ritorno alla realtà dopo anni di proclami. Perché anche per il Paese che, di fatto, è ancora il centro del mondo, la geopolitica segue una legge antica: nessuno è davvero sovrano, quando il potere viaggia lungo le rotte del commercio globale.


