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Saranno mesi molto difficili per gli argentini. Lo shock economico annunciato dal nuovo presidente, Javier Milei, mira a ridurre la spesa pubblica di un importo equivalente al 5% del PIL, ma l’obiettivo a lungo termine è raggiungere il 18% del PIL argentino, una cifra vicina agli 80 miliardi di dollari. In Argentina, contrariamente alle comuni convinzioni, la spesa pubblica totale equivale al 36% del PIL, rispetto a una media europea del 51%. Il problema risiede altrove, ovvero che la base imponibile è molto limitata perché una grande massa di lavoratori e attività economiche operano nel settore informale e, soprattutto, perché il paese è gravato da un enorme debito pubblico, che ha raggiunto i 400 miliardi di dollari nel 2023, il 90% del PIL. Si prevede che l’aggiustamento radicale della spesa pubblica, insieme alla privatizzazione di imprese statali in perdita, porterà il bilancio pubblico a pareggio entro il 2024, ovviamente secondo Milei. Ciò dovrebbe essere ottenuto superando prima un picco di inflazione previsto al 240% nel 2024, rispetto al 180% nel 2023. La liberalizzazione del dollaro, la fine del mercato parallelo, prezzi al consumatore non regolamentati e servizi pubblici pagati al costo reale senza sovvenzioni sono le parole d’ordine, ma dovranno fare i conti con una popolazione impoverita. L’amministrazione uscente di Alberto Fernández ha ricevuto un paese nel 2019 con il 35% della popolazione in povertà e lo consegna con il 40%, compresi gli estremamente poveri, per un totale di 12 milioni di argentini. Questo è uno dei fallimenti più spettacolari del movimento peronista, che, specialmente sotto la guida della coppia Kirchner, aveva adottato una retorica “progressista” dopo essere stato corporativista, neo-fascista e neoliberista in passato.

Dopo il terribile default del 2001, risultato della lunga onda di politiche monetarie degli anni ’90 con il peronista Menem, l’Argentina ha vissuto un periodo di crescita vertiginosa negli anni 2000. È riuscita a risolvere il problema del debito e ha genuinamente aiutato coloro che sono stati colpiti dal default. Tuttavia, l’eterna tentazione populista, specialmente dopo la morte di Néstor Kirchner nel 2010, insieme ai macroscopici errori economici della vedova, Cristina Fernández, è riuscita a creare ancora più poveri, mantenendo un sistema assistenzialista senza speranze, finanziato con il deficit pubblico e la stampa di moneta senza valore, oltre alla distribuzione illimitata di posizioni di potere nello stato e nelle imprese pubbliche, in mezzo a accuse di corruzione fino ai livelli più alti. L’intervallo del governo Macri, tra il 2015 e il 2019, ha solo aggiunto un nuovo gigantesco debito nei confronti del FMI senza cambiare né l’orientamento economico né la macchina assistenzialista che si nutre della povertà. La fase terminale del declino è stato il governo di Alberto Fernández, un avvocato peronista che ha insultato Cristina Kirchner per anni e poi si è alleato con lei nelle elezioni del 2019. Un governo che ha peggiorato le tendenze economiche suicide dei precedenti governi: controlli dei cambi, dollaro parallelo, restrizioni all’importazione, politiche dirigiste a caso e soprattutto spesa pubblica incontrollata senza freni né controlli. Il voto di novembre 2023, che è stata la più grande sconfitta per il peronismo, è stata solo parzialmente una vittoria per Javier Milei; ha pesato di più il voto contro i responsabili del declino degli ultimi 20 anni. E Milei, essendo un outsider, è riuscito a catalizzare il malcontento lasciando fuori dalla lizza il centrodestra storico guidato da Patricia Bullrich, poi recuperato nella composizione del suo gabinetto. Il presidente Milei non ha ideologie politiche ma solo economiche. Nel suo governo ci saranno fedelissimi dalla prima ora, figure chiave della coalizione di centrodestra arrivata terza e settori del peronismo anti-Kirchnerista, oltre a rappresentanti del mondo delle grandi imprese nazionali e multinazionali. Un governo di destra, ma di coalizione, unito nel desiderio di chiudere per sempre l’esperienza kirchnerista. Il punto è che l'”istinto animale” di Milei, anti-establishment e caotico, noto per fare l’economista pazzo in televisione, potrebbe giocare un brutto scherzo alla coalizione se davvero intende mantenere le sue promesse con gli elettori. Per ora prevale la moderazione, semplicemente perché il partito di Milei ha 7 su 72 senatori e 38 su 257 deputati. Senza i voti in parlamento dei deputati e senatori di Macri e dei peronisti anti-K, non si governa.

Per ora, le misure annunciate da Milei assomigliano molto all’esperienza del peronista Menem, che vinse le elezioni nel 1989 in mezzo all’iperinflazione. Grazie alla politica di parità tra il dollaro e il peso e alla privatizzazione delle imprese statali, Menem fornì al paese una stabilità artificiale che collassò con il default nel 2001. Molti elementi del governo di Milei provengono da quell’esperienza, ma il mondo non è più quello degli anni ’90, e ancor meno l’Argentina. In quel momento, il paese sudamericano aveva una percentuale di povertà in linea con i paesi del Mediterraneo europeo e, soprattutto, un grande patrimonio pubblico da vendere o meglio da svendere. Le carte vincenti del nuovo governo potrebbero arrivare dal gigantesco giacimento di gas naturale di Vaca Muerta in Patagonia e dallo sfruttamento del litio nell’estremo nord, oltre alle tradizionali esportazioni di prodotti agricoli. La domanda è se riuscirà a superare le inevitabili scosse politiche e sociali di un piano di aggiustamento così radicale come annunciato. Un aggiustamento, va detto, che qualsiasi candidato vincente avrebbe dovuto affrontare, anche il peronista Mazza. La questione è il tempismo e la sostenibilità politica. Due fattori che gettano seri dubbi sul futuro di Milei, ma se riesce a superare il primo anno, affrontare con successo l’inflazione e mettere in ordine le finanze dello Stato senza aumentare i tassi di povertà, potrebbe avere un futuro politico oltre il suo attuale mandato quadriennale.

In questa analisi ho intenzionalmente tralasciato il tema dei diritti umani e della Memoria, che questo governo metterà in discussione, avendo addirittura negazionisti tra le sue file su quanto accaduto negli anni ’70 in Argentina. Ci saranno sicuramente tentativi di rivendicare una cosiddetta “memoria condivisa”, evidenziando la figura delle vittime innocenti degli attacchi compiuti dei gruppi di lotta armata. Tuttavia, questi temi non hanno minimamente influenzato il dibattito pre-elettorale e non sono previste nell’agenda del nuovo governo misure particolari che li riguardino. Tutto si giocherà sul rapporto tra economia, Stato e società. Ed è su quel campo che si misurerà il successo o la sconfitta di una figura che, in soli 5 anni, grazie alla televisione e ai social media, è riuscita a trovarsi a dirigere un paese del G20.

Serán meses muy difíciles para los argentinos. El shock económico anunciado por el nuevo presidente, Javier Milei, tiene como objetivo reducir el gasto público en un monto equivalente al 5% del PIB, pero el objetivo a largo plazo es alcanzar el 18% del PIB argentino, una cifra asombrosa de 80 mil millones de dólares. En Argentina, contrario a creencias comunes, el gasto público total equivale al 36% del PIB, en comparación con un promedio europeo del 51%. El problema radica en otra parte, a saber, que la base impositiva es muy limitada porque una gran masa de trabajadores y actividades operan en el sector informal y, sobre todo, porque el país está cargado con una enorme deuda pública, que alcanzó los 400 mil millones de dólares en 2023, el 90% del PIB. Se espera que el ajuste radical del gasto público, junto con la privatización de empresas estatales con pérdidas, equilibre el presupuesto público para 2024, según Milei. Esto se lograría primero superando un pico de inflación que se espera alcance el 240% en 2024, en comparación con el 180% en 2023. La liberalización del dólar, el fin del mercado paralelo, precios al consumidor sin control y servicios públicos pagados al costo real sin subsidios son las consignas, pero tendrán que lidiar con una población empobrecida. La administración saliente de Alberto Fernández recibió un país en 2019 con un 35% de la población en situación de pobreza y lo entrega con un 40% en situación de pobreza, incluyendo a los extremadamente pobres, un total de 12 millones de argentinos. Este es uno de los fracasos más espectaculares del movimiento peronista, que, especialmente bajo el liderazgo de la pareja Kirchner, adoptó una retórica “progresista” después de haber sido corporativista, neo-fascista y neoliberal en el pasado.

Después del terrible default de 2001, resultado de la larga ola de políticas monetarias en los años 90 con el peronista Menem, Argentina experimentó un período de crecimiento vertiginoso en la década de 2000. Logró resolver el problema de la deuda y ayudó genuinamente a quienes se vieron afectados por el default. Sin embargo, la eterna tentación populista, especialmente después de la muerte de Néstor Kirchner en 2010, junto con los evidentes errores económicos de su viuda, Cristina Fernández, lograron crear aún más pobres mientras mantenían un sistema de bienestar sin esperanzas, financiado con déficit público e impresión de dinero sin valor. A esto se suma la distribución ilimitada de cargos de poder en el Estado y empresas públicas, en medio de denuncias de corrupción hasta los niveles más altos. El intervalo del gobierno de Macri, entre 2015 y 2019, solo agregó una nueva deuda gigantesca al FMI sin cambiar ni la orientación económica ni la máquina de bienestar que se alimenta de la pobreza. La fase terminal del declive fue el gobierno de Alberto Fernández, un abogado peronista que insultó a Cristina Kirchner durante años y luego se unió a ella en las elecciones de 2019. Un gobierno que empeoró las tendencias económicas suicidas de los gobiernos anteriores de Cristina Kirchner: controles de cambio, dólar paralelo, restricciones a las importaciones, políticas dirigistas al azar y, sobre todo, gasto público descontrolado sin frenos ni controles. El voto en noviembre de 2023, que fue la mayor derrota para el peronismo, fue solo parcialmente una victoria para Javier Milei; pesó más en contra de los gestores del declive de los últimos 20 años. Y Milei, siendo un externo, logró catalizar el descontento, dejando de lado al centro-derecha histórico liderado por Patricia Bullrich, luego incluido en la composición de su gabinete. El presidente Milei no tiene ideologías políticas sino solo económicas. En su gobierno habrá leales desde el principio, figuras clave de la coalición de centro-derecha que quedó en tercer lugar y sectores del peronismo anti-Kirchnerista, además de representantes del mundo de las grandes empresas nacionales y multinacionales. Un gobierno de derecha pero de coalición, unido en el deseo de cerrar para siempre la experiencia kirchnerista. El punto es que el “instinto animal” de Milei, antiestablishment y anárquico, conocido por ser el economista loco en la televisión, podría jugar una mala pasada a la coalición si realmente pretende cumplir sus promesas con el electorado. Por ahora, prevalece la moderación, simplemente porque el partido de Milei tiene 7 de 72 senadores y 38 de 257 diputados. Sin los votos en el parlamento de los diputados y senadores de Macri y los peronistas anti-Kirchneristas, la gobernabilidad es imposible.

Por ahora, las medidas anunciadas por Milei se asemejan mucho a la experiencia del peronista Menem, que ganó las elecciones en 1989 en medio de la hiperinflación. Gracias a la política de paridad entre el dólar y el peso y la privatización de empresas estatales, Menem proporcionó al país una estabilidad artificial que colapsó con el default en 2001. Muchos elementos del gobierno de Milei provienen de esa experiencia, pero el mundo ya no es el de los años 90, y mucho menos Argentina. En ese momento, Argentina tenía una tasa de pobreza en línea con los países del Mediterráneo europeo y, sobre todo, un gran patrimonio público para vender o malvender. Las cartas ganadoras del nuevo gobierno podrían ser el inicio de la producción del gigantesco yacimiento de gas natural en Vaca Muerta en la Patagonia y la explotación de litio en el extremo norte, además de las exportaciones tradicionales de productos agrícolas. La pregunta es si podrá superar las inevitables convulsiones políticas y sociales de un ajuste tan radical como el anunciado. Un ajuste, que quede claro, que cualquier candidato ganador habría tenido que enfrentar, incluso el peronista Mazza. La cuestión son los tiempos y la sostenibilidad política. Dos factores que generan serias dudas sobre el futuro de Milei, pero si logra superar el primer año, abordar con éxito la inflación y poner en orden las finanzas del Estado sin aumentar las tasas de pobreza, podría tener un futuro político más allá de su actual mandato de 4 años.

En este análisis, dejé intencionalmente fuera el tema de los derechos humanos y la Memoria, que este gobierno desafiará, teniendo incluso negacionistas entre sus filas sobre lo que ocurrió en la década de 1970 en Argentina. Seguramente habrá intentos de reclamar una “memoria compartida”, destacando la figura de las víctimas inocentes de los ataques de las fuerzas armadas de izquierda. Sin embargo, estos temas no influyeron mínimamente en el debate previo a las elecciones y no se espera que formen parte de la agenda del nuevo gobierno con medidas particulares al respecto. Todo se jugará en la relación entre la economía, el Estado y la sociedad. Y es en ese terreno donde se medirá el éxito o el fracaso de una figura que, en solo 5 años, gracias a la televisión y las redes sociales, logró ascender para liderar un país del G20.

“It’s the economy, stupid!” fu lo slogan vincente che Bill Clinton adottò contro Bush senior quando lo sbaragliò alle elezioni presidenziali del 1992: ed è vero che qualsiasi problema diventa secondario quando i conti di un Paese non tornano. È questa la chiave di lettura corretta per spiegare il “fenomeno Milei” in Argentina. I temi che hanno trovato più spazio sulla stampa internazionale – come i diritti umani, le questioni di genere e la difesa della memoria storica, valori che sicuramente non fanno parte della cultura di Milei – nel dibattito interno all’Argentina hanno avuto una rilevanza marginale. Le questioni importanti sono state altre. In primo luogo, la necessità di una soluzione per il problema dell’inflazione, che quest’anno sta toccando il 142% e che negli ultimi tre anni si è mangiata gran parte del reddito delle famiglie. Che la ricetta sia la dollarizzazione dell’economia, come suggerito da Milei, è opinabile: ma la sua è stata l’unica proposta concreta, contrapposta al silenzio del rivale Sergio Massa, ministro dell’Economia in carica e, quindi, tra i primi responsabili del ciclo inflazionistico. L’altra questione chiave è stata la cosiddetta “lotta alla casta”, certamente non originale ma di stretta attualità in un’Argentina che arriva da vent’anni di peronismo kirchnerista. Soprattutto nell’ultimo periodo, gli scandali di corruzione e la spartizione clientelare delle poltrone delle imprese gestite dallo Stato, affidate a persone senza competenze, sono apparsi eccessivi perfino per gli standard argentini: due decenni di potere e di impunità acquisita hanno portato a eccessi ingiustificabili. La situazione risulta aggravata dall’aumento esponenziale della violenza criminale, dai semplici borseggiatori fino ai narcos, favorito da un sistema giudiziario dalle maglie troppo larghe.

La sconfitta di Massa è stata anche una vittoria delle province. Il sistema federale argentino prevede alcune tasse locali, ma le imposte fiscali più importanti, equivalenti alle nostre IVA e IRPEF, sono raccolte dallo Stato centrale, che poi le ridistribuisce sul territorio. Dal 2014 i trasferimenti alle province non amministrate dai peronisti hanno subito costanti tagli a vantaggio dei territori “fedeli”, soprattutto i comuni della periferia di Buenos Aires, storico bastione peronista. Le sovvenzioni per energia e trasporti e gli aiuti sociali sono stati assorbiti quasi tutti dalla provincia di Buenos Aires, mentre le altre venivano emarginate. E così a Córdoba, Santa Fe e Mendoza, le province più importanti dopo quella della capitale, il voto per Milei ha toccato punte del 70%.

Alla base dei populismi di nuova generazione ci sono sempre motivi profondi, che spesso vengono trascurati perché si preferisce raccontarne gli aspetti folkloristici. In America Latina poi, in società ormai spaccate, non si ammettono mai le colpe che portano alla sconfitta, a destra come a sinistra. Il quotidiano “Pagina 12” di Buenos Aires, portavoce del peronismo progressista, il mattino dopo il voto presidenziale ha pubblicato un editoriale spiegando che “il popolo ha sbagliato”. Il problema non è il governo uscente, non è la disastrata economia: è l’elettorato che sbaglia. Un classico di chi, senza mai fare autocritica, prepara la propria parte politica a nuove sconfitte. Ieri Bolsonaro in Brasile, oggi Milei in Argentina, senza dimenticare i candidati “impresentabili” arrivati fino al ballottaggio in Colombia e in Cile: le destre storiche del continente sudamericano diventano marginali di fronte all’emergere dei nuovi tribuni del popolo, in genere ultraconservatori, che riescono a fiutare il malcontento popolare e a tradurlo in proposta politica, giusta o sbagliata che sia. È una capacità che 25 anni fa ebbero i Lula, i Chávez e i Morales, spesso scivolati nel populismo di segno opposto. Oggi occorrono abilità mediatica e la capacità di scuotere le persone perché vadano a votare. Viviamo una nuova era, a cui ancora ci dobbiamo abituare, nella quale chi fa politica deve saper interpretare gli umori, le sofferenze e le aspirazioni della gente non studiando sui trattati di sociologia, ma vivendo tra le persone. E nella quale alla “predica” deve seguire un comportamento personale coerente, perché la politica di oggi è fatta da fedeltà temporanee.