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Ci sono volute poche settimane perché le grandi aziende statunitensi si adeguassero al nuovo corso della Casa Bianca. Dopo avere per anni definito e attuato politiche di inclusione su questioni di genere, rispetto delle minoranze, tutela dei consumatori, è bastato che Donald Trump parlasse dell’esistenza di soli due sessi, che J.D. Vance proclamasse il diritto alla libertà assoluta e senza filtri sui social, che Elon Musk sparasse a zero contro le misure che hanno permesso alle minoranze e alle donne di assumere incarichi importanti, perché iniziasse lo smantellamento di quelle politiche aziendali che, secondo la retorica di qualche anno fa, avrebbero reso il mondo un “posto migliore”. Le stesse politiche che, a destra, venivano denunciate come espressione della cultura woke o della cosiddetta teoria gender. È lungo l’elenco delle corporation che stanno abiurando le politiche DEI (diversità, equità e inclusione) promosse negli ultimi anni: da Disney a McDonald’s, da General Motors a un colosso della finanza come BlackRock. In verità, non sempre questo affrettato revisionismo è riuscito a imporsi. Apple ad esempio è stata fermata preventivamente dal voto contrario dei suoi azionisti, che a stragrande maggioranza sostengono i programmi aziendali di diversità e inclusione. Cosa che invece non è successa con Meta: la creatura di Zuckerberg non solo ha cancellato i programmi DEI, ma ha anche allentato i controlli sulle fake news sui social network. Walmart, il colosso della grande distribuzione, ha già sospeso il monitoraggio sulle sue politiche LGBTQ+ e deciso di non vendere più prodotti caratterizzati sulla diversità sessuale, togliendo anche il sostegno al Center for Racial Equity, che si batte contro le discriminazioni su base etnica.

Si tratta di un vero e proprio riflusso che ha investito l’etica aziendale dopo l’insediamento di Donald Trump, a dimostrazione di come quei valori ora cancellati non rientrassero affatto nel DNA del nuovo management multinazionale. Non erano, insomma, convinzioni autentiche ma mosse opportunistiche, o forse solo banali adeguamenti alla moda, al clima politico. Questa giravolta, tra l’altro, ha rilanciato il dibattito sulla mission delle aziende: limitarsi a fare profitti oppure diventare influencer “politici”, per sostenere la politica o magari sostituirsi a essa?

In realtà, quella che sta evaporando era una grande illusione, costruita ad hoc per trasformare virtualmente il consumatore in “elettore”: si è venduta l’idea che acquistare un prodotto volesse dire anche esprimere un “voto” circa le politiche delle aziende su temi sociali e diritti. Quell’illusione ha contribuito a creare in mezzo mondo una nuova sensibilità sulle questioni dell’inclusione e della tutela dei diritti. Eppure, è probabile che la giravolta delle aziende non avrà ripercussioni sui loro affari: le vendite e i profitti continueranno a dipendere dalla qualità, dal marketing e anche dagli aiuti di Stato, soprattutto nel settore high-tech. È tornata a prevalere l’anima classica del grande capitalismo, che solo per pochi anni ha finto di aprirsi a minoranze e diversità, per tornare velocemente a essere bianco e maschio, come da tradizione.

Non è una novità che si discuta del “ruolo sociale” delle imprese. Ma un’impresa, soprattutto se multinazionale, deve davvero avere un ruolo sociale? E che cosa si intende, in concreto, con questa espressione? Domande che sorgono spontanee quando si osserva che tutte le imprese incluse dalla rivista Fortune nella lista delle 100 più importanti al mondo hanno almeno un programma dedicato alla diversità, all’uguaglianza e all’inclusione. Non importa di che cosa si occupino, né dove e come operino: sono tutte dichiaratamente schierate contro il razzismo e le discriminazioni basate sulla religione o sull’identità sessuale, e a favore dell’inclusione. Tutto molto roseo, tutto molto woke, come usano dire negli Stati Uniti, usando un termine che in origine era un doveroso invito a non abbassare la guardia nei confronti delle ingiustizie sociali o razziali, ma che poi ha assunto significati di crescente rigidità morale, spesso con derive censorie. È una logica che non soltanto permea la retorica delle grandi aziende, ma detta legge anche in ambito accademico, dove la libertà di espressione sta subendo limitazioni in base ai dettami sempre più stringenti del politically correct e la carriera professionale di un docente può dipendere più dall’appartenenza a una qualche minoranza che dalle sue reali capacità e competenze.

Nel mondo delle imprese, la logica woke stride rispetto all’atteggiamento mostrato verso il diritto principale dei lavoratori, quello relativo al reddito, alla sicurezza e alle condizioni di impiego, spesso calpestato nel silenzio generale. È un ambito, questo, sistematicamente escluso dalle intenzioni “altruistiche” di quelle stesse compagnie che ostentano la massima attenzione verso temi quali l’opportunità (in sé più che giusta, sia chiaro) di allestire bagni specifici per le persone transessuali, non mettono minimamente in discussione il loro modello di business: un modello che favorisce solo gli azionisti a discapito sia dei lavoratori sia dei consumatori e della comunità in generale. Per non parlare delle ipocrisie sull’impatto reale dei processi produttivi sull’ambiente e sul cambiamento climatico. Oggi, sui social e sui loro siti, le multinazionali che estraggono e commercializzano fonti energetiche fossili si presentano quasi come associazioni ambientaliste. Tutto è sostenibile, tutto è parte della transizione verso un mondo migliore… Ma non si trovano mai informazioni sui rapporti di queste aziende con le comunità locali dei territori dove il petrolio e il gas vengono estratti, né si parla del pesante lavoro di lobbying fatto in sede internazionale per rimandare sine die la transizione energetica.

Il mondo delle imprese woke si sposa perfettamente con quello delle imprese culturali globali, come le piattaforme che presentano serie TV e film in streaming. Anche qui si racconta una società nella quale ogni differenza è stata abolita, dove di default devono esserci sempre personaggi di tutte le etnie, anche in situazioni storiche improbabili. Questo mondo ideale si infrange contro la realtà quotidiana degli Stati Uniti, dove se un ragazzo di colore esce la sera per divertirsi, i genitori restano in ansia perché temono non tanto che possa essere derubato, quanto fermato dalla polizia, come ebbe a denunciare Barack Obama. Ed è questo il punto: l’approccio woke usato da multinazionali e media globali per prevenire critiche nei loro confronti è solo maquillage, non intacca minimamente la struttura di una realtà che rimane profondamente diversa. Mentre in una serie TV alla corte di Maria Antonietta ci possono stare aristocratiche di pelle scura, nella realtà gli afroamericani continuano a trovarsi ai gradini più bassi della società. E nessuno racconta come e perché siano aumentate in modo smisurato le retribuzioni dei CEO, mentre il lavoro subordinato non è più garanzia di una vita decente.

Il mondo delle imprese woke sta diventando stucchevole e l’inganno ormai è evidente: puntare tutto sui diritti individuali per evitare di parlare di diritti collettivi. Una tecnica innovativa che ha retto a lungo, ma che oggi pare avere i giorni contati.