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Non è certo una novità che un Paese rivendichi il diritto a occupare territori non suoi accampando la scusa della “sicurezza”. Senza andare troppo lontano nel tempo, negli ultimi decenni hanno occupato territori in modo permanente Israele nel Golan, la Cina nel Tibet, la Turchia sull’isola di Cipro. Negli ultimi anni, sempre dietro la giustificazione dei motivi di sicurezza o anche della tutela di minoranze etniche, si sono però moltiplicate le azioni belliche che non si sono tradotte in occupazione permanente o per le quali l’esito è ancora incerto: basti pensare agli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, alla Turchia in Siria, alla Russia in Crimea e Ucraina. È una sconfitta della diplomazia, un ritorno alla “politica delle cannoniere”, ai tempi in cui il Regno Unito si arrogava il diritto di stabilire basi navali ovunque lo ritenesse opportuno e gli Stati Uniti occupavano senza troppi problemi isole caraibiche o Paesi del Centroamerica.

Il neopresidente statunitense Donald Trump, anziché rifarsi all’alibi consolidato della sicurezza militare, ha estratto dal cassetto degli attrezzi la motivazione della sicurezza economica: ha minacciato di invadere o annettere altri Paesi perché strategici per i collegamenti marittimi statunitensi, come Panama con il suo canale, oppure per le sue forniture di risorse minerarie, come la Groenlandia, territorio autonomo della Corona danese. Senza dimenticare il consiglio non richiesto dato al Canada di diventare il 51° Stato degli USA. Quello che immagina Trump è un super-Stato di 22 milioni di chilometri quadrati, che sarebbe più vasto della Russia e che occuperebbe tutto il Nordamerica geografico con l’eccezione del Messico, considerato Paese vassallo, ma controllando più a sud il Canale di Panama che collega per via marittima la sponda atlantica con quella pacifica del continente. Siamo sicuramente nel campo della fanta-geopolitica, ma così facendo si legittimano altri appetiti in giro per il mondo, non solo quelli russi ma anche quello cinese su Taiwan. 
In un mondo dove il “doppio standard” a favore degli Stati Uniti – cioè tu non puoi fare ciò che invece è concesso a me – sta passando velocemente di moda, una simile politica da parte di Washington equivarrebbe a un rompete le righe destinato a far esplodere decine e decine di conflitti latenti. Ogni potenza continentale o regionale, come nell’800, potrebbe ridisegnare la geografia politica a partire dai propri interessi nazionali, in una giungla senza legge, anzi, sotto la legge della sola potenza militare.

Questa tendenza, sommata all’aumento esponenziale delle spese militari che si sta registrando in tutto il mondo, non fa certo ben sperare e ci racconta per l’ennesima volta la fine di un “sogno”, quello del mondo non più governato dagli Stati ma dal mercato. Nella retorica degli anni ’90, l’intero pianeta si sarebbe dovuto aprire al libero scambio di capitali e di merci e questo avrebbe garantito la fine dei conflitti, poiché i Paesi sarebbero diventati tutti soci dello stesso grande business. Smaltita la sbornia, anche quegli Stati che davvero sono diventati partner in affari, come gli Stati Uniti e la Cina, stanno tornando indietro e pensano a rafforzare gli arsenali. Che cos’è fallito? Sicuramente era un’illusione pensare che eliminando la politica si sarebbe costruito un nuovo ordine mondiale; l’errore imperdonabile è stato depotenziare le istanze multilaterali, come l’ONU e il WTO, e umiliare il diritto internazionale. Il prezzo da pagare è un mondo sempre più litigioso, dove nessuna potenza da sola riesce a imporre un qualsiasi ordine e, anzi, dove ciascuno tenta di affermarsi tornando a fare ricorso alle armi. È uno scenario che ricorda il naufragio della Società delle Nazioni, nata dopo la Prima guerra mondiale per evitare che si ripetesse un simile massacro, che poi puntualmente arrivò. Dovremo aspettare un altro conflitto di quella portata perché si torni a negoziare anziché a spararsi? Impossibile dirlo, ma è doloroso ammettere che solo le grandi tragedie hanno fatto fare passi avanti alla comunità mondiale.