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Le mode alimentari da sempre hanno influenzato l’economia mondiale, provocando ricadute, non sempre positive, sui territori. L’aumento esponenziale del consumo di pesce – fresco e decongelato – dovuto soprattutto alla veloce espansione globale del sushi sta intaccando l’intero sistema oceanico. Da piatto tradizionale giapponese, a partire dagli anni ’80 del Novecento il sushi è diventato moda planetaria e oggi viene servito a tutte le latitudini, anche in zone dove non era mai esistita una tradizione gastronomica ittica. Secondo la FAO, più di un terzo degli stock ittici globali è sfruttato oltre i limiti della sostenibilità. Tra le specie più richieste dall’industria del sushi figurano il tonno rosso, il salmone e il polpo: la domanda ha portato a un drammatico declino delle popolazioni in natura. Il tonno rosso, in particolare, è ormai a rischio estinzione a causa della pesca indiscriminata, con ripercussioni su tutto l’ecosistema marino.

L’acquacoltura, spesso presentata come alternativa sostenibile, non è esente da problemi: gli allevamenti di salmone, ad esempio, inquinano le acque circostanti e favoriscono la diffusione di malattie tra le specie selvatiche. Inoltre, molte delle specie allevate vengono nutrite con farina di pesce, aggravando ulteriormente il prelievo di risorse marine.

In Ecuador il fenomeno è particolarmente evidente, dato che proprio per fare spazio all’acquacoltura gamberiera è stato eliminato il 70% delle foreste di mangrovie. Inoltre si alterano le coste, con l’acqua salata che invade territori dove si praticano altre forme di allevamento o si coltivano specie vegetali. Sono stati soppressi anche campi agricoli, sostituiti da vaste distese d’acqua marina pullulanti di gamberi. Ma i cicli di allevamento durano solo circa sette anni: poi resta un deserto, con il terreno salinizzato dove non si coltiva più nulla. In Indonesia, il 52% della deforestazione delle mangrovie è dovuto al boom dell’acquacoltura, specialmente dei gamberetti tropicali a basso costo, venduti principalmente nei mercati europei e statunitensi. Secondo recenti studi, la produzione di 100 grammi di gamberetti sarebbe responsabile del rilascio in atmosfera di ben 1000 tonnellate di CO2, più della carne di manzo.

Oltre a impattare sugli stock delle specie pescate direttamente, il consumo eccessivo di pesce contribuisce anche al fenomeno del bycatch, ovvero la cattura accidentale di specie non destinate al commercio, come tartarughe, delfini e squali. Questi animali spesso vengono gettati nuovamente in mare, ma nella maggior parte dei casi non sopravvivono. Vari metodi di pesca, poi, contribuiscono alla distruzione degli habitat marini. Le reti a strascico devastano i fondali oceanici, eliminando interi ecosistemi di coralli e alghe, fondamentali per la sopravvivenza di numerose specie. E le conseguenze si ripercuotono non solo sulla fauna marina, ma anche sulle comunità costiere che dipendono dalla pesca per il loro sostentamento.

Il supermercato globale, ad esempio, offre gamberoni in abbondanza: spesso sono stati pescati da grandi navi con la tecnica dello strascico e immediatamente congelati a bordo. Accade in particolare al largo delle coste della Patagonia, dove centinaia di navi cinesi, di Taiwan e della Corea del Sud pescano fino a ridosso delle acque di competenza argentina, impoverendo un oceano che sarebbe ricco di nutrienti per i grandi cetacei marini, come la balena franca australe. Ovviamente questo mercato sta in piedi grazie ai consumatori, che però difficilmente scelgono le poche opzioni sostenibili di pescato certificato. Come per altri prodotti della dieta globale, il pesce consumato in quantità non sostenibili contribuisce a peggiorare la salute del pianeta: ma la tentazione di pagare pochissimo per un prodotto una volta molto caro fa sfumare ogni senso di colpa, fino alla prossima moda.