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Il lento declino della globalizzazione iniziata negli anni ’90 del secolo scorso è diventato caduta libera. Il Paese che aveva teorizzato e costruito la deregolamentazione dei mercati, dei capitali e del lavoro oggi è impegnato a picconare quello stesso mondo che, negli ultimi 30 anni, era diventato quasi senza frontiere per le merci, ma non per le persone. Nel 1987 il presidente repubblicano Ronald Reagan, in uno storico discorso alla radio, demonizzava i dazi e le chiusure di mercato, in modo coerente con la sua ideologia liberale e liberista. Nel 2025, il presidente repubblicano Donald Trump demonizza i mercati aperti perché, secondo lui, sono la causa di un grande furto compiuto ai danni dei cittadini statunitensi, e invoca i dazi. Confonde i dazi con il surplus commerciale, il presidente più isolazionista e protezionista della storia recente nordamericana, e immagina un mondo nel quale prevalga solo l’interesse nazionale, a qualsiasi costo. La sua è una posizione molto simile a quella dei cosiddetti “patrioti” europei, che però non hanno né il peso né gli strumenti politici per applicare le stesse politiche.

In tre decenni si è passati dall’unipolarismo (USA) al bipolarismo (USA e Cina) e al multipolarismo (G7 e Paesi Brics), e ora stiamo cadendo nel tribalismo, tutti contro tutti. Sarebbe una conclusione davvero curiosa per la transizione che si è aperta nel 1991 con la fine dell’URSS: anche perché dimostrerebbe che oggi non è più possibile un ordine basato sulla potenza di uno o due Paesi, e nemmeno un equilibrio multipolare. Siamo di fronte a un insieme di potenze litigiose che pensano solo ai fatti loro, nel quale per dirimere le questioni critiche si moltiplicano le guerre, alcune già iniziate e altre in agguato.

Già si alzano voci da più parti che invitano ad abbandonare il green deal europeo, a uscire dall’Accordo di Parigi e dalle agenzie dell’ONU, a disconoscere la Corte penale internazionale. Non è ciò che pensavano gli ideologi del globalismo degli anni ’90, che immaginavano un mondo aperto nel quale il mercato, eterodiretto dalle loro aziende multinazionali, avrebbe creato un ordine alternativo a quello della politica. Ora abbiamo invece una prepotente rivincita dello Stato, che impone dazi senza preoccuparsi delle ricadute sui cittadini, che umilia i mercati, che disegna scenari mondiali conflittuali, ma soprattutto che prima di agire non ascolta i poteri economici tradizionali. Paradossalmente, non è una rivoluzione socialista ma il suo contrario. Nel mondo post-politico delle nuove destre al potere c’è stata una saldatura tra una parte della politica e pezzi importanti della new economy, che non soltanto mettono a disposizione enormi capitali, ma controllano i social media e possono fare tantissimo per sostenere i leader, anche quando questi raccontano colossali fake news.

In democrazia non si era mai verificata una commistione così gigantesca tra economia e politica: chi dice che è proprio la democrazia a essere in pericolo, non sbaglia. Non perché ci sia il rischio del ritorno dei nazisti al potere, ma per il concreto pericolo di un neo-autoritarismo tecno-conservatore che da un lato propone modelli sociali reazionari e patriarcali, dall’altro controlla l’opinione pubblica con i mezzi più sofisticati mai esistiti. Una grande sfida, insomma, nella quale i dazi appaiono quasi marginali rispetto al disegno complessivo: quello che mira al controllo diretto del potere, senza gli “intoppi” dei Parlamenti e delle magistrature, creando giganteschi conflitti di interesse alla luce del sole, rendendo la democrazia utile solo a legittimare la conquista del potere, poi si vedrà. Questa politica ha molto di antico e, al tempo stesso, molto di innovativo. Non può essere capita né combattuta con gli strumenti tradizionali dell’indignazione e delle piazze. È una sfida a tutto campo e lo scenario in cui si combatte inizia nel proprio smartphone per estendersi a tutto il mondo.

La politica del “liberi tutti” dalle regole del WTO, e la minaccia statunitense di applicare dazi sulle merci dei Paesi con i quali gli USA hanno una bilancia commerciale in negativo, presentano anche opportunità per quegli Stati che accettano di allinearsi velocemente con il nuovo inquilino della Casa Bianca. Proprio in queste opportunità si annida un conflitto d’interessi di proporzioni gigantesche, forse il più grande mai visto, perché in diversi casi gli Stati che potrebbero ottenere vantaggi sono quelli dove il più illustre neo-funzionario dell’amministrazione Trump, Elon Musk, sta facendo o intende fare affari. Internet e auto elettriche sembrano essere la chiave di lettura di ciò che sta accadendo in Asia. Il Vietnam ha approvato una legge che apre il mercato interno ai gestori di internet che operano con satelliti a orbita bassa: si legge Starlink. L’India, dove il premier Modi non ha mai nascosto le sue simpatie per Donald Trump in chiave anticinese, ha accettato di abbassare i dazi sull’import di auto elettriche di costo superiore ai 40.000 dollari, portandoli dal 110 al 70%: si legge Tesla. Pare che in questo caso abbiano avuto effetto le minacce di colpire l’export verso gli Stati Uniti, che sarebbe costato all’India una perdita di 7 miliardi di dollari. La stessa propensione ad allinearsi ha dimostrato il presidente argentino Javier Milei, in questo caso con convinzione: sta aprendo il mercato argentino ai servizi di Starlink e sta discutendo con Musk sulle concessioni relative al litio, materia prima vitale per le batterie elettriche. Anche Taiwan non potrà contare soltanto sulla “solita” rendita geopolitica per avere l’appoggio degli USA nel contenimento della Cina. L’isola, primo produttore mondiale di microchip, si impegnerà per cifre miliardarie nell’acquisto di missili da crociera a stelle e strisce di ultimissima generazione: in questo caso sarà la potente industria bellica USA a trarne vantaggio.

Questa politica di Washington rappresenta il superamento della strategia dei dazi “duri e puri” attuata durante il primo mandato di Trump soprattutto contro la Cina, che si è dimostrata non solo poco efficace nel confronto con Pechino, ma anche controproducente nei rapporti commerciali con Paesi come Vietnam e Messico, che con le loro esportazioni hanno preso il posto della Cina. La novità è la saldatura tra gli interessi degli USA e quelli dell’uomo più ricco del pianeta: Starlink, in particolare, viene usata sia come arma di ricatto nella negoziazione sui dazi, sia come potente strumento di pressione sull’Ucraina, che per coordinare il proprio esercito dipende da questo sistema privato di satelliti. In questa diplomazia degli affari, gli Stati Uniti sfruttano la loro potenza politico-militare come poche volte nella storia un Paese si era permesso di fare.

L’ideologia MAGA, diffusa ogni giorno via social, si sta rivelando una coperta corta, che lascia intravedere ciò che vorrebbe nascondere: contano solo gli affari. Siamo di fronte a una realtà ambigua, di modernità reazionaria. Modernità perché si stanno spalancando le porte di settori avveniristici, strategici per il futuro dell’umanità, ai privati (o meglio, al privato); reazionaria perché questa politica si ammanta di princìpi retrivi, a dir poco discutibili, ma che comunque si possono sempre accantonare in nome del profitto. A fare la differenza non sarà il sostegno offerto da Musk e soci a forze di estrema destra relegate, almeno per ora, a fare opposizione, come AFD in Germania o Vox in Spagna; piuttosto, le conseguenze concrete verranno dalla dura politica di minacce in cambio di vantaggi commerciali, che potrà favorire l’economia degli Stati Uniti. Ma se il tanto proclamato ritorno all’età dell’oro promesso da Trump ai propri elettori si tradurrà nell’ulteriore arricchimento degli oligarchi dell’high tech, chi si era illuso si renderà presto conto che qualcosa non torna. Il populismo alla fine è sempre così: arriva al potere lisciando il pelo al popolo e promettendo benessere per tutti per poi fare gli interessi dei soliti, che sono pochi, in questo caso pochissimi.